La riflessione sui margini entro cui può muoversi il governo nell’ultimo confronto sindacale sulle pensioni prima che la sessione di bilancio entri nel vivo non possono che partire dalla Nadef. Nella Nota di aggiornamento al Def si certifica che, a legislazione vigente, la spesa previdenziale crescerà di 22,1 miliardi ( +8,35%) tra il 2017 e ll 2020; da 264,6 miliardi a 286,7. Siamo a quota 15,3% del Pil e il livello sarebbe stabile nel triennio, a patto che il denominatore segua le previsioni dell’Esecutivo.
Il tendenziale di spesa comprende l’indicizzazione all’inflazione delle pensioni, che dal 2019 torna al meccanismo già previsto dalla legge 388 del 2000 con una rivalutazione al 100% per gli assegni fino a tre volte il minimo, al 90% per quelli tra 3 e 5 volte il minimo (tra 1.500 e 2.5000 euro al mese circa), mentre l’ultima fascia, oltre le cinque volte il minimo, sarà rivalutata al 75%. E comprende anche il fatidico adeguamento dei requisiti di pensionamento e dei coefficienti di trasformazione con cui verranno calcolati i valori delle pensioni future. Sappiamo dall’Istat che sui primi l’aumento previsto è di 5 mesi dal 2019, e sappiamo che bloccare questo stabilizzatore automatico di spesa innescherebbe 5 miliardi di maggiori uscite previdenziali nel solo biennio 2019/2020.
Non sappiamo, per esempio, se l’eventuale stop non inneschi anche qualche ricorso di chi ha già vissuto uno spostamento della data di pensionamento in virtù di questo meccanismo: nel 2013, quando l’età di pensionamento venne elevata di 3 mesi, e nel 2016, quando è salita di 4 mesi arrivando a 66 anni e 7 mesi per gli uomini (65 anni e 7 mesi per le dipendenti del settore privato).
Se dal fronte della spesa passiamo a quello dei risparmi sappiamo, invece, che la riprogrammazione dei finanziamenti per l’ottava salvaguardia-esodati assicura 507 milioni cumulati nel triennio di programmazione: rispetto ai 30.700 posti previsti dalla legge di Bilancio 2017 (la 232/2016), l’operazione viene ora considerata chiusa con 16.294 persone tutelate, come fissato nel decreto fiscale 148/2017 in vigore dal 16 ottobre. Questa dote è stata girata al Fondo sociale per l’occupazione del ministero del Lavoro, che non va mai in perenzione.
Sulla carta una parte di quelle risorse potrebbe essere utilizzata per finanziare eventuali maggiori spese previdenziali. Spese aggiuntive rispetto a quelle già previste nel Ddl di Bilancio 2018-2020. La Relazione tecnica della manovra dice poi che l’apertura dell’Ape sociale anche ai lavoratori a termine e il “bonus” di sei mesi per ogni figlio fino a un tetto di 24 mesi per le lavoratrici-madri costerà 252 milioni cumulati entro il 2020.
Come in altri casi non sappiamo se il “tiraggio” dell’Ape sociale allargato a 6-7mila beneficiari in più all’anno determinerà davvero quelle uscite previste, anche perché l’anno prossimo dovrebbe finalmente decollare anche l’Ape volontario e aziendale, che un minimo di adesioni dovrebbe innescare garantendo uscite dal mercato a 63 anni, quattro in meno dei fatidici 67 anni, senza costi per lo Stato. In assoluta approssimazione, sottraendo alla maggiore spesa per l’Ape sociale allargato i risparmi della riprogrammazione esodati resterebbero sul piatto circa 250 milioni per il triennio. Risorse scarsissime quando si tratta di finanziare misure pensionistiche.
Ma il Governo dovrà partire da qui.
(IL SOLE 24 ORE pag. 3 · 02-11-2017)