La giustizia non è uguale per tutti. Dipende. E dipende anche dalle cervellotiche interpretazioni della legge da parte del giudice di turno. Le strade per farla franca sono infinite, basta saperle trovare. Così ci si può intascare indebitamente un po’ di soldi, essere condannati in sede penale, ma non essere licenziati dal datore di lavoro ( che pure aveva provato a farlo) al quale si erano sottratti i denari. Di più: essere reintegrati nel posto di lavoro, vedersi accreditati gli arretrati come risarcimento del danno subito e lasciare all’imprenditore, cornuto e mazziato, il pagamento delle spese processuali. Sia chiaro, la colpa non è delle presunte eccessive garanzie di quel che rimane del famigerato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ormai ridotto a un simulacro; e nemmeno della lentezza dei processi del Belpaese che ingenera incertezza in chi investe o vorrebbe farlo. Tutte cose che abbiamo già sentito fin troppe volte. Questa volta è diverso, tutto inedito e assai originale. Questa volta è un giudice ( del lavoro ) che ha dettato la sua legge: quando hai le prove che un dipendente si è appropriato dei tuoi soldi lo devi licenziare in tronco, non dopo la sentenza che ne accerti ( almeno in primo grado) il reato. Insomma, carpe diem. Altro che garanzie, magari fino all’ultimo grado di giudizio. In caso contrario paghi tu e ti tocca riprendere anche l’impiegato infedele. Paradossale? No, decisionismo. Per far funzionare meglio le imprese ma non la giustizia. Appunti forse per un nuovo corso di management aziendale aggressivo e anche un po’ borderline, non di relazioni industriali e nemmeno di buon senso comune.
La storia l’ha raccontata sul sito di Repubblica Paolo G. Brera. Accade a Vasto nel 2012. Un impiegato cinquantenne delle Poste in possesso delle chiavi della cassaforte decide di appropriarsi di circa 15mila euro. Un’intercettazione ambientale lo smaschera. Le Poste scelgono di trasferirlo da Vasto a Chieti in attesa degli sviluppi sul piano giudiziario. Quando scattano le misure cautelari l’azienda sospende l’impiegato che viene, .una prima volta, reintegrato dopo l’istanza dei suoi avvocati difensori. Il 22 agosto del 2016 arriva la sentenza del tribunale penale di Vasto: condanna a un anno e nove mesi per appropriazione indebita ma non per il reato più grave di peculato. A ottobre le Poste lo licenziano. Comportamento lineare: tu mi hai preso i miei soldi (in questo caso sono soldi dei clienti delle Poste, cioè nostri), ti ho denunciato e un giudice ha accertato che hai sbagliato. Lineare anche l’appello dei difensori dell’imputato che impugnano il verdetto anche davanti al giudice del lavoro.
Chi non si appella alla ricerca del cavillo che possa salvarti? E infatti il giudice del lavoro del tribunale di Chieti, Rafia Prozzo, salva il nostro postino: «La società, sin dall’ottobre 2012, disponeva di tutti i dati sufficienti per poter procedere ad una contestazione disciplinare. In questo quadro, quindi, non si giustifica l’attesa della sentenza di condanna’ per la formulazione della contestazione disciplinare, che deve ritenersi irrimediabilmente tardiva, in quanto intervenuta a quasi cinque anni dai fatti». Conclusione, davvero bizantina: il licenziamento è illegittimo, va annullato e il dipendente deve ritornare nel suo posto di lavoro e risarcito del danno pari agli stipendi non pagati e delle spese legati sostenute.
Dire che qualcosa non quadra è a dir poco un eufemismo. Va da sé che nei processi di lavoro la parte più debole è quella del lavoratore che nella giurisprudenza ha ricevuto sempre ( e giustamente) la maggiore attenzione e tutela. Ma in questo caso non siamo di fronte a un conflitto di lavoro. Il lavoro è solo il luogo dove probabilmente ( siamo in attesa dell’appello e poi dell’ultimo verdetto della Cassazione) si è compiuto il reato. E allora è difficile capire perché il licenziamento in tronco sarebbe stato legittimo e invece non lo è più quello che arriva dopo cinque anni forte, tra l’altro, di un primo verdetto penale di condanna. Sembra una versione del tutto inedita della giustizia ad orologeria. Diciamo che anche di questa non se ne sentiva la necessità.
(LA REPUBBLICA pag. 41 · 21-09-2017)