«Una vita di lavoro, siamo solo pedine»

Grazie a Anna e Renata, che raccontano l'amarezza di prepensionamenti ed esodi alla fine di una vita di lavoro

Anna Orrù scrive da Selargius, provincia di Cagliari. Si firma “esodata postale”

«Non ho creduto mai in una società perfetta ma ho creduto con fermezza di vivere in uno Stato di diritto: ho creduto che lo Stato avrebbe rispettato il patto quando ho accettato di risolvere con Poste, partecipata al 65% dal ministero del Tesoro, il rapporto di lavoro, con l’affidamento del diritto alla pensione di vecchiaia al compimento dei miei 60 anni; ho creduto al rispetto della normativa vigente nel giugno 2011, data dell’accordo, non potendo prevedere che mi si applicasse retroattivamente un incremento del requisito anagrafico pari a otto anni per poter aspirare alla pensione; ho creduto al rimedio che lo Stato si era imposto per ovviare all’omissione di una norma transitoria e ho fatto affidamento al riconoscimento statale dello status di esodata. Ora, invece, alla soglia dei 60 anni che compirò il 29 novembre, dopo aver conciliato il lavoro con la cura per la famiglia, mi ritrovo senza stipendio, senza ammortizzatori sociali, senza pensione, senza la speranza di un futuro dignitoso. Sogno ancora una società giusta. Ma non credo più in uno Stato di diritto.
Ancor prima delle note leggi Sacconi e Fornero del 2011, alcune lavoratrici dipendenti di Poste Italiane, over 50 e con contribuzione sufficiente per accedere alla pensione di vecchiaia, per esigenze di ristrutturazione aziendale sono state contattate da Poste e indotte a sottoscrivere un accordo di incentivo all’esodo. A decorrere dal corrente anno, le nate nel ’57 avrebbero raggiunto il diritto previdenziale e invece per esigenze tutte giustificate da oneri finanziari insostenibili, non è andata così. È innegabile la violazione di un diritto garantito dalla Costituzione e confermato dalla Corte Costituzionale con una sentenza del 2016: “I diritti incomprimibili dei cittadini vengono prima del pareggio di bilancio”. Anche la pensione è un diritto incomprimibile. Senza fatti la politica annienta se stessa».

Renata, invece, scrive da Milano

«Oggi è una giornata triste. Mi è stato chiesto dall’azienda per cui lavoro da 38 anni se non fosse venuto per me il tempo di mettersi d’accordo su un prepensionamento. Contavo di lavorare ancora tre anni. A un certo punto ti rendi conto che tutto quello che hai ottenuto, le promozioni, i complimenti, la considerazione delle alte sfere che fino a ieri dicevano “non andare in pensione, vai avanti più che puoi, come faremmo senza te” sparisce dalla sera alla mattina, i colleghi stessi quasi non ti rivolgono la parola: sei un fantasma. Ho sempre messo il lavoro al secondo posto nelle mie priorità, al primo c’è sempre stata mia figlia che per quasi 30 anni ha sofferto di una gravissima anoressia, l’hanno presa per i capelli tre volte, ma ora è qui, con due splendidi bimbi e ancora in forza per lottare contro quei mostri radicati dentro di lei. E in terapia, è una mamma fantastica, lavora e si porta dentro ancora quella montagna di dolore. Ora che avrei voluto arrivare ai miei 67 anni e aver diritto alla pensione che mi spetta, no, non mi è permesso. Siamo solo pedine, numeri insignificanti. In fondo però sono fortunata, ho una famiglia fantastica e due nipotini che mi spezzano il cuore dalla tenerezza. Scusa lo sfogo».

(LA REPUBBLICA pag. 32 · 19-10-2017)